Si rende fin da subito necessaria una precisazione linguistica riguardo i termini “bollito” e “lesso”, che di primo acchito possono sembrare sinonimi. Che sia chiaro, la distinzione che si va a fare si riferisce all’opinione prevalente, che non dev’essere riduttiva delle interpretazioni locali e talora personali di questo o quel gastronomo. Ciò premesso, il sostantivo “bollito” va inteso come forma abbreviata di “bollito misto” con riferimento a un piatto di carni e insaccati cotti in acqua. Per la sua stessa composizione, che comporta una quantità minima di carni piuttosto notevole, il bollito misto è un piatto da festa familiare o da ristorante, dove di solito viene servito in apposito carrello riscaldante, con brodo e salse.
Quanto al “lesso”, si tratta invece del singolo pezzo di carne, bollito con la finalità di ottenere un brodo della più ricca sostanza, destinando la polpa a un consumo secondario. Salvo rare eccezioni il bollito misto è preparazione caratteristica delle regioni di storica tradizione nell’allevamento bovino.
In Italia si parla anzi di “mezzaluna del bollito”, ovvero dell’area formata dalle regioni della grande casearia padana: Piemonte, Lombardia e Veneto allineate sulla linea d’ombra ed Emilia Romagna a disegnare la curva esterna di questa ideale mezzaluna. Le relative ricette evidenziano che la composizione del bollito misto ha dei punti fissi: sono previsti infatti particolari tagli di manzo, magri e semigrassi, ed alcune parti di vitello, specie del quinto quarto (testina, lingua, coda, zampino), con l’aggiunta del cotechino come primo insaccato da bollito.
Certo, varcando i confini regionali, si colgono sensibili differenze: nella scelta dei tagli, ma soprattutto nelle salse di accompagnamento e nelle verdure di contorno. Il viaggio a volo d’uccello sugli orizzonti del bollito segue il corso del Po e parte considerando una formidabile razza da carne, la Bianca Piemontese, bovino di genealogia remota e straordinaria esuberanza muscolare, che sul finire dell’Ottocento ha espresso un esemplare addirittura eccezionale, capostipite dell’odierna razza da carne a “coscia doppia”.
Varcato il confine con il Veneto, il bollito misto si distingue per una serie di importanti dettagli.Nella composizione del piatto, innanzitutto, hanno maggiore ruolo i volatili, tradizionale vanto delle corti di pianura: la gallina, a partire da quella Padovana dal gran ciuffo, documentata fin dal Cinquecento nelle tavole dell’Aldovrandi, ma anche anatra, oca e faraona. Muta pure il quadro dei condimenti, dove il primo distinguo riguarda la mostarda, che sotto il segno del leone di san Marco si ricava dalla mela cotogna, importata dal Medio Oriente dai mercanti della Serenissima. La ricetta codificata da una storica azienda richiede mele cotogne e frutta candita ridotte a consistenza granulosa, più zucchero e olio essenziale di senape. Sempre in termini di piccante, comincia qui l’epopea del cren, ovvero della salsa ottenuta amalgamando nell’aceto la radice grattugiata del rafano, molto popolare in tutta l’Europa continentale.
Infine è da segnalare nel Veronese, con specifica festa a Isola della Scala, la pearà, salsa da bollito di tradizione per lo meno medievale, a base di pangrattato, midollo, formaggio grattugiato e pepe. Nel calice, un rosso a partire dai tanti a base Merlot che sono vanto regionale.
Per saperne di più... L'ARTE DEL BOLLITO NEL VICENTINO, EDITORE TERRAFERMA
(Il volume è disponibile presso l'ufficio turistico di Piazza Matteotti a Vicenza € 8,00)
- Teoria e pratica del lesso e del brodo
- Teoria e pratica del bollito misto
- Storie vicentine tra lesso e bollito
- Dal bancone della carne alla tavola imbandita
- Tagli da bollito, celebrità e misconosciuti
- Le delizie del quinto quarto
- Elogio della trippa alla vicentina
- Il rito pantagruelico degli ossi de mas-cio
- Cotechini, musetti e bondiole
- I bolliti bavaresi della Birreria Summano
- Una vera rarità, il colo de castrà alesso
- Gallina da brodo e gallo da lesso…
- A Lonigo, una cattedra per la gallina Dorata
- Un francesismo gastronomico, il capon a la canevéra
- Alla ricerca dei veri bigoli co’ l’arna
- Cum grano salis… a proposito di condimento
- Prima fra le salse, la mostarda vicentina
- Dalle radici di rafano, il piccante piacere del cren
- Calici o boccali per il più eclettico dei piatti
Il maiale ha sempre rivestito un ruolo di primaria importanza nella gastronomia italiana e quindi anche in quella dell’entroterra veneto. Ciò è dovuto al fatto cheil Veneto è da sempre una regione che fonda la propria economia sull’agricoltura e l’allevamento di animali da cortile, nutriti con i prodotti della terra, poveri ma genuini. L’ansia che prendeva la famiglia contadina qualche giorno prima dell’uccisione del maiale coinvolgeva tutti, provocando un’agitazione generale e un diffuso nervosismo. Intanto c’era la previsione di dover lavorare molto più del solito e in modo febbrile, ma anche la certezza di mangiare a sazietà e questo dava una carica inconsueta, creando nel contempo un clima di festa.
Il mas-cio veniva generalmente immolato nell’intervallo di tempo che andava da Santa Caterina a Sant’Antonio Abate (17 gennaio) chiamato anche “Sant’Antonio del mas-cio”. Da quel giorno, appena passata la metà di gennaio, si iniziavano a consumare le carni insaccate del maiale appena ucciso, ché di quelle dell’anno precedente non c’era più neanche il ricordo.
“El mas’cio xe na botéga” recita un adagio vicentino per sottolineare quanto sia generosa l’eredità del maiale, e una nota d’inventario del 1866, conservata nell’archivio comunale di San Vito di Leguzzano, aiuta a immaginarne la consistenza: «luganeghe 44, luganeghe di mortadelle 12, mortadelle 20, sopresse 7, salati 26, musetti 5, codini 31, bondiole 4, salame colla lingua 1; pancette 2, capi di lonza 2, pezzi di lardo 4». Non vengono citati il prosciutto, che un tempo o veniva venduto per finanziare l’acquisto del nuovo suinetto o integralmente destinato all’impasto di salami e sopresse, e le mortadelle, insaccati ottenuti dai tagli minori e dalle frattaglie, oggi quasi scomparse, ma nel complesso la rassegna di salumi è sostanzialmente la stessa presentata dai salumifici artigianali odierni.
DUE “ISTITUZIONI”... LA SOPRÈSSA VICENTINA DOP E IL RITO DEGLI OSSI DE MAS-CIO
Il Consorzio di Tutela della Soprèssa Vicentina Dop (con sede a Thiene) è il punto di arrivo di un lavoro secolare di tecniche naturali e gusto e quello di partenza (dal 2003) per una garanzia totale di controllo su area geografica di produzione vicentina, trasformazione e lavorazione delle mezzene di maiale.
Luigi Costa (già delegato della Accademia Italiana della Cucina) testimonia da una delle cene annuali dedicate agli ossi del maiale, “dono” finale della lavorazione: «In piedi si gustano fettine di salame abbrustolito che insaporiscono radicchio di campo, poi a tavola risotto al tastasale, fegato ai ferri, cotechino col purè di patate. Al centro viene messo il pentolone, tolta l’acqua di cottura e tutti gli ossi del maiale (bolliti per circa tre ore) si spolpano con le mani, accompagnati a cren e sale grosso. Una volta si finiva col sanguinaccio dolce, ma si è perso il sapore dalla memoria...»
Citazione d'esordio per la regina dei salumi vicentini. I
principi di lavorazione sono gli stessi recepiti dalla produzione
Dop, ma le sopresse di fattoria hanno il privilegio
di nascere nel loro contesto originale, da suini allevati
allo stato semibrado, nei momenti e nelle pezzature
di rito, maturando in cantina fino a due anni nell'incertezza
dettata dall'andamento stagionale ma col valore
aggiunto del pieno rispetto della tradizione.
Tra i prodotti
particolari si segnalano le sopresse investie, rivestite, inglobanti un taglio di carna pregiata – ossocollo,
filetto o braciola – che così si mantengono freschi a
lungo e impreziosiscono la fetta nel disegno e nel sapore.
Il termine «bondola» deriva forse dal latino «botulu», che sta per budello, o ancor più probabilmente da una voce arcaica d’ambito padano indicante un oggetto di forma tondeggiante. Questi insaccati d’impasto analogo al cotechino, hanno tuttavia pezzatura maggiore e forma tondeggiante per via dell’insaccatura in vescica.
Quanto alla preparazione, carni e cotiche, nelle proporzioni codificate dalla tradizione contadina, vengono macinate singolarmente, quindi impastate con aggiunta di sale e aromi (pepe, cannella e chiodi di garofano), rimacinate assieme e infine insaccate in una vescica di maiale o vitello, tutt’al più in ritagli di budello di vacca. Questo accorgimento trova motivo d’essere nell’esigenza di prolungare la conservazione dell’insaccato, di modo che le bondole possano essere consumate successivamente ai cotechini, fino a primavera. Il consumo è previa cottura in acqua e gli abbinamenti sono gli stessi del cotechino: salsa di rafano («cren»), radicchio di campo stufato o altre verdure bollite.
Prodotto caratteristico è la bondola con la lingua, che consente la conservazione di questo taglio di carne inserendolo intero nel cuore dell’insaccato o a pezzi mischiato all’impasto dopo una breve salmistratura. Da segnalare, l’antica usanza di portare in tavola la «bondola col lengual» nel giorno dell’Ascensione, festività che cade per lo più in maggio; è quello che gli antropologi definiscono rituale atropopaico, affidando al consumo della lingua di maiale il valore di scongiuro contro i morsi dei serpenti, animali a lingua bifida, che proprio in questo periodo dell’anno tornano a mostrarsi nei campi. È a questa tradizione, che si ispira l’odierna Sagra della Bondola, in calendario a Torrebelvicino nelle domeniche del mese delle rose.
Nei tempi andati la macellazione degli animali di grossa taglia, domestici e selvatici, poneva il problema di conservarne le carni per evitare gli sprechi del consumo immediato. Il metodo di più frequente adozione era la salagione dei tagli più pregiati, che nelle sue varianti regionali spazia dalla carne salada trentina alla bresaola valtellinese.
A Lusiana lo stesso risultato si ottiene per semplice essiccazione, processo che ha il notevole vantaggio di alterare molto meno il sapore della carne. La preparazione riguarda piccoli tagli di manzo o cavallo, cosparsi d’aromi e pazientemente asciugati al calore di un fuoco di legna pregiata e frasche di ginepro. Al taglio la carne secca si presenta all’esterno scura, con sapore affumicato, e all’interno rosata e morbida. Quanto alla carne di cavallo, va ricordata la sua caratteristica di contenere in piccola percentuale uno zucchero, il glicogeno, che ne rende inconfondibile il gusto. Rispetto al passato va registrato il fatto che a questo trattamento non sono destinati le carni di animali da lavoro a fine carriera, per questo piuttosto coriacee, ma manzi ed equini di razze pregiate e d’età ideale.
Al momento del consumo, la carne secca viene affettata sottile, e servita come un salume, assieme a un’insalata di fagioli e cipolle, per esempio; oppure viene scaldata sulla piastra e servita con un contorno di polenta e funghi; o ancora, trattata più modernamente come un carpaccio, da bagnare con un filo d’olio e abbinare a scaglie di formaggio. Non manca uno specifico appuntamento gastronomico, la Sagra della carne secca che si tiene il 25 luglio, a margine delle solennità riservate al patrono San Giacomo.
Oltre alle sopresse consuete, con o senza aglio, oggetto del riconoscimento Dop, la salumeria artigiana vicentina ne propone un tipo particolare che rimanda all'uso di conservare più a lungo i tagli pregiati del maiale insaccandoli all'interno di una grossa sopressa. L'ossocollo, o coppa che dir si voglia, è uno di questi.
Questa sopressa investìa, 'rivestita', è una vera specialità, anche perché non se ne possono avere più di due per ogni maiale: la fetta è uno spettacolo, con l'impasto marezzato a incorniciare la carne piena, ben venata di grasso e fresca; il gusto è caratteristico, in una commistione di dolce e salato.
Un tempo le sopresse con l'ossocollo venivano consumate con parsimonia, ponendole sul tagliere nelle grandi occasioni.
L'oca è ben presente nella tradizione vicentina come
carne conservata sotto grasso: l'oco in onto è produzione
tipica del basso vicentino dove viene utilizzata, per
esempio, per arricchire risi e bisi, la più classica delle
minestre primaverili. L'utilizzo salumiero di questo
volatile, originariamente legato alle esigenze alimentari
delle comunità ebraiche, non ha riscontro storico a
Vicenza.
La produzione di salame e prosciuttini d'oca
avviata presso alcune fattorie della zona pedemontana
di Arsiero è da considerarsi un caso di tipicità acquisita.
Caratteristica di entrambi i prodotti è la delicatezza
della carne, adatta agli antipasti più raffinati.
Il salame, salado in dialetto, è l'insaccato per antonomasia e rappresenta la parte preponderante della trasformazione salumiera. Nella tradizione vicentina, caso più unico che raro, è complementare alla sopressa: l'impasto è sostanzialmente lo stesso, come le aggiunte aromatiche, cambia la pezzatura, più piccola, per il consumo dei primi mesi, fino a quando, tra estate e autunno, subentra la compagna.
Il calendario della buona tavola vicentina vuole «salado so le bronse» per il giovedì grasso, a testimonianza del suo esordio stagionale come pure della consuetudine di consumarlo scaldato in graticola raccogliendo con polenta fresca o abbrustolita il grasso colato sul piatto. L'odierna produzione artigianale ne propone tre tipi: il salame vicentino, con gli stessi tagli della sopressa, vale a dire coscia, coppa, spalla, lombo, pancetta e grasso di gola; il salame tradizionale, dove invece prevalgono le parti di spalla e pancetta; il salame con l'aglio, che tra l'altro ha la particolarità di accellerare la maturazione.
Più che un salume, sono un prodotto derivato dalla
lavorazione dello strutto. Trattasi di particelle carnose,
che una volta strizzate dal grasso e compresse si presentano
scure e croccanti. Un tempo i sossoli venivano
usati per insaporire le verdure cotte, al posto della pancetta,
o nell'impasto del cosiddetto pan coi sossoli;
oggi, più che altro, sono serviti come aperitivo con un
bicchiere di vino novello.
Rara produzione, tipicamente montana, mantenuta in
vita da poche aziende tra Arzignano e Chiampo, nella
bassa Val d'Agno. Abbinano alla carne suina una quantità
per lo meno uguale di rape gialle, ortaggio un
tempo diffuso nelle comunità alpine. Il taglio suino
prevalente è quello delle coste con eventuale aggiunta
di guanciale e gola.