Ogni anno a Pozzolo di Villaga la primavera è annunciata dalla raccolta dei "BISI". I buoni piselli di Pozzolo, infatti, arrivano presto, favoriti dalla particolare composizione del suolo e da un clima ideale. Qui, su questo grande altopiano dei Colli Berici, l’esposizione al sole e le coltivazioni su rive o terrazzi in "costiera" - sempre miti anche nelle fredde giornate d’inverno - permettono una produzione precoce e soprattutto conferiscono ai "Bisi de Pozzolo" un sapore davvero unico. Non a caso nel passato si tenevano a maggio veri e propri mercati, con acquirenti "forestieri" che andavano poi a vendere i "Bisi" nelle città vicine, per la delizia dei palati di tanti buongustai. Una tradizione, quella della coltivazione dei piselli, che non è andata perduta, anzi. I buoni, e delicatissimi "Bisi de Pozzolo" rimangono il migliore condimento per le "tajadele de casa", e il caratteristico "risi e bisi" è ancor oggi un piatto richiestissimo. Queste ed altre specialità si possono assaporare, nel rispetto della tradizione, in tante trattorie del territorio, che ancor oggi privilegiano una cucina tipica, semplice e genuina. L’ Amministrazione Comunale continua il proprio impegno nella valorizzazione di questo prelibato prodotto e più in generale, del territorio collinare, promuovendo il mese dei "Bisi de Pozzolo"; tra maggio e giugno saranno loro i protagonisti dei menu nei locali di Villaga, Toara e appunto, Pozzolo, in un suggestivo viaggio gastronomico nel nostro territorio.
Tutt’intorno, lo scenario di una campagna coltivata soprattutto a mais, complementare al quale si pone la coltura dei legumi, seminati tra i filari del cereale, sfruttandone i fusti come tutore per gli steli rampicanti. Questo vale per i fagioli, ma soprattutto per una varietà che tollera bene la siccità conosciuta come fagiolo o “tegolina asparago”, caratterizzata da baccelli di notevole lunghezza, fino a 80 centimetri, di colore verde scuro, cui si devono le denominazioni correnti di “fagiolo serpente” o “fagiolo metro”, e il dialettale scuria, ovvero “fagiolo frusta”.
Ulteriore particolarità riguarda l’origine di questa leguminosa, probabilmente importata dalla regione indiana in età molto precedente alla scoperta dell’America. Quanto agli aspetti agronomici, la semina avviene ai primi di aprile e la raccolta a fine luglio, in corrispondenza della Fiera di Sant’Anna, donde la denominazione dialettale di teghe de Sant’Ana.
Il consumo di questi fagiolini avviene per lo più allo stato fresco, lessati e ripassati in tegame con un condimento, di solito un battuto di lardo, nel quale sia stata stemperata della sarda salata. In modo analogo si prepara un piatto di pasta, bigoli al torchio per lo più, abbinandoli alla verdura in una sorta di “paglia e fieno” alla vicentina. In passato era pratica diffusa l’essiccazione sull’aia e l’utilizzo differito, come riserva invernale, previa reidratazione. Ultima virtù della pianta, come tutte le leguminose, la capacità di fissare l’azoto dell’aria a livello radicale, migliorando la fertilità del terreno in modo del tutto naturale.
Il Veneto è una delle regioni più quotate nella produzione dell’asparago, pianta che richiede terreni di origine fluviale, corrispondenti all’habitat originario della specie, e clima ventilato, ma senza eccessivi sbalzi di temperatura. Questo accade nella valle del Brenta, dov’è celebre la realtà di Bassano del Grappa, ma anche in altre località, dall’Adige al Piave, dove la stagione di raccolta avviene tradizionalmente tra San Giuseppe (19 marzo) e Sant’Antonio (13 giugno). Comune denominatore della produzione veneta è la varietà a turione bianco, di grandi dimensioni, con polpa croccante e sapore dolce. A documentarne la storicità sono le cronache del Cinquecento ed è rimasto celebre l’aneddoto dei vescovi del Concilio di Trento, che non fecero segreto di apprezzarli. Il consumo di questo ortaggio parte dalla più semplice delle preparazioni, la bollitura, con i gambi immersi nell’acqua e le punte appena sopra la sua superficie, preparando nel frattempo la più semplice delle salse con uovo sodo, olio extravergine d’oliva, aceto, sale e pepe: sparasi e ovi, piatto essenziale, ma nutriente e di grande soddisfazione. Poi c’è il risotto, altro grande classico, e a seguire tutte le specialità di più recente ideazione, che utilizzano l’asparago anche a crudo. Tra le produzioni locali si segnala quella di Marola, avviata negli anni Sessanta dall’azienda dei Fratelli Branco nelle fertili campagne del Tesina. Ad attestarne il livello è innanzitutto l’affezione dei tanti acquirenti che, percorrendo la provinciale di Ca’ Balbi, si fermano per fare acquisti in fattoria, in nome della convenienza di un prodotto “a chilometri zero”.
Sito web: http://www.asparagobranco.it
A mille metri di quota il sedano ha una stagione tutta sua: un tempo si seminava in cassoni protetti da fine gennaio a marzo; oggi le piantine arrivano dai vivai e vengono messe a dimora, nel terreno ben lavorato e concimato con letame bovino o equino, non appena il tempo dà idea d’essersi acquietato, tra maggio e giugno.
In estate il sedano cresce senza bisogno di gran che, perché per lo più basta la rugiada notturna a tener fresco il terreno; lo stesso dicasi delle altre avversità, malattie e parassiti, che hanno minore incidenza grazie al clima montano. Giunge così il momento dell’imbianchimento, operazione che consiste nel coprire di terra fino a una certa altezza le coste del sedano, cosicché al riparo della luce possano restare chiare e croccanti.
Caratteristiche del sedano di Rubbio sono proprio la costa bianca, la consistenza tenera e il sapore delicato. Un tempo il sedano era coltivato su larga scala e nei giorni di mercato le donne scendevano a valle con le ceste stipate di ortaggi: da Bassano a Thiene lungo la Pedemontana, ma anche a Vicenza, sempre l’8 di settembre, per la festa della Madonna di Monte Berico, patrona della città. Oggi l'8 settembre viene festeggiato durante la Sagra del Sedano, con la mostra dei vari campioni di ortaggio e stand gastronomici nei quali viene proposto in tutte le salse.
Le fonti non sono precise sull’origine della coltivazione, di cui tuttavia si ha ricordo fin dai primi del Novecento. Anni che non conoscevano il frigorifero e che dunque stimolavano la fantasia dei cuochi per approfittare del limitato periodo del raccolto, da settembre ai primi freddi. Abituati a considerare il sedano come ingrediente accessorio di insalate e minestre, si resta stupiti di fronte alle ricette di questa tradiziona locale: zuppa di sedano e salsiccia, riso e sedano, crema di sedano, sedani in umido o gratinati, più tutti quegli utilizzi promiscui, dalle insalate ai contorni, specie con il pollo. Specialità d’altri tempi, le lumache col sedano.
Il nome scientifico, Pastinaca sativa, sottolinea che si tratta di una varietà 'da semina', selezionata da un'antenata spontanea, diffusa nei prati e negli incolti di tutta Italia, dalla pianura ai 1500 metri di quota: una pianta erbacea, con steli cavi, profondamente solcati, e fogliame simile a quello del sedano, sul quale spiccano le infiorescenze a ombrello, di colore giallo.
Caratteristica è la radice, un fittone di colore biancastro, che nelle varietà coltivate assume dimensioni notevoli e, una volta lessato, trova il suo più consueto utilizzo nella preparazione di minestre e zuppe. L'interesse alimentare per questo ortaggio è antichissimo, come sembra suggerire il nome, che alcuni fanno derivare dal greco 'panakeia', composto da 'pan' (tutto) e 'akos' (rimedio), da cui l'italiano 'panacea', rimedio che guarisce tutti i mali. Come tutti gli ortaggi da radice, la pastinaca è in effetti nutriente e ricca di minerali, in special modo potassio, fosforo e calcio.
In tal senso si esprime il francese Jean Valnet (1920-1995), luminare della fitoterapia, ovvero di quella medicina alternativa fondata sulle virtù terapeutiche dei vegetali: "La pastinaca è ortaggio energetico, un tempo considerato come alimento base. È diuretico, disintossicante, antireumatico ed emmenagogo, ovvero attivatore del flusso mestruale. Le persone soggette a pinguedine potranno trarne giovamento. Raccomando di utilizzarlo spesso nelle minestre." Una curiosità linguistica riguarda il nome russo della pastinaca, 'pasternak', che richiama alla mente la figura di Boris Pasternak (1890-1960), autore del romanzo «Il dottor Zivago» e premio Nobel per la letteratura nel 1958.
Le varietà più apprezzate della pastinaca risalgono al Sei-Settecento, epoca che non a caso registra i commenti più entusiastici sulle sue virtù. L'inglese John Parkinson (1567-1650), uno dei primi grandi botanici dell'età moderna, scrive che "la radice di pastinaca è un cibo sovrano, ed è molto usata, bollita e stufata col burro, soprattutto durante la Quaresima, più che in qualunque altra epoca dell'anno". Questo perché è risaputo che le radici, lasciate in terra durante l'inverno, grazie al gelo guadagnano in concentrazione d'amido e dolcezza. Della popolarità della pastinaca è indicativo il fatto che in Inghilterra si prepara ancora oggi una sorta di vino, il 'parsnip wine'.
La sua coltura, un tempo diffusa in tutta Europa, è arretrata di pari passo con l'affermazione della carota nelle sue moderne varietà, più attraenti solo per colore e forma. In Italia la pastinaca era molto apprezzata nel Cinquecento, al tempo del Palladio, per restare in ambito vicentino, ed in tal senso è stata rilanciata in vista del 2008, cinquecentesimo anniversario della sua nascita, grazie al Gruppo di Ristoratori delle Risorgive, che hanno voluto festeggiare la ricorrenza con un menù d'epoca. Da allora, verificato che le campagne di Monticello e dintorni sono quanto di meglio per la sua coltivazione, la produzione è cresciuta sotto l'egida dell'Istituto di Sperimentazione Agraria «Strampelli» di Lonigo. Pianta rustica e poco esigente, la pastinaca è un prodotto 'naturale' per vocazione, che nelle più recenti proposte gastronomiche, sia cruda che cotta, si è dimostrato ingrediente molto eclettico.
Longare è comune sulla strada che da Vicenza scende verso Noventa seguendo il margine orientale dei Colli Berici. Superato il capoluogo, si raggiunge la frazione di Lumignano, che innalza l'altissimo campanile sullo sfondo di una rupe calcarea; qui si scorgono gli orti a terrazze, le cosiddette masiere, dov'è tradizionale la coltura dei piselli, merito dei monaci Benedettini che probabilmente la avviarono in epoca medievale. I contadini avevano capito di poter sfruttare il riverbero della roccia riscaldata dal sole per ottenere una produzione tanto precoce da essere inviata a Venezia per la festa di San Marco, il 25 di aprile.
La fatica degli agricoltori era premiata da un ortaggio di ineguagliabile delicatezza, che sublimava nel più caratteristico dei piatti primaverili, risi e bisi, più minestra che risotto, semiliquida e ricca di piselli. La coltura ha avuto rilancio in anni recenti, grazie alla sagra che tiene banco nei fine settimana di maggio ma anche al lavoro dell'Istituto Provinciale di Genetica e Sperimentazione Agraria "Strampelli" di Lonigo, che ha proceduto alla selezione della varietà di pisello più adatta all'ambiente e fedele alla tradizione.
Nel territorio di Montecchio Maggiore con il nome di ‘cornette’ si indicano i baccelli di un particolare tipo di legume, il fagiolo nano dall’occhio veneto. La denominazione scientifica, Dolichos melanophtalmus, mette in risalto la caratteristica saliente del seme: l’occhio (dal greco ophtalmos) di colore nero (melanos) che ne segna la depressione. Il fatto che non sia collocato nel genere botanico Phaseolus, comprendente le specie tipiche delle Americhe, mette in risalto l’ambito mediterranea di questo legume, ben noto e utilizzato nell’alimentazione tanto dai Greci quanto dai Romani. Per quel che riguarda le tipicità locali, è nota la facilità con cui i legumi si ibridano dando vita, anche spontaneamente, a nuove varietà. Ciò premesso, i caratteri che distinguono il fagiolo nano dall’occhio veneto sono la taglia del baccello, sottile e piuttosto allungata, a sezione rotonda, e il suo colore verde intenso con tonalità e striature violette. È uno di quei legumi ‘mangiatutto’, che non vengono coltivati per i fagioli, ovvero per i semi a maturazione completa, ma per il consumo del baccello ancora verde che risulta privo di filamenti e, una volta lessato, di gradevole consistenza. Le cornette di Montecchio maggiore si coltivano in piena terra, formando delle distese verdi che si accendono del colore giallo dei fiori non appena vengono raggiunte dal sole mattutino. Rispetto ai comuni fagioli le cornette richiedono un clima più caldo, ragion per cui la semina avviene in aprile-maggio, per una raccolta estiva, da luglio a settembre, o anche più tardi, per una produzione tardiva fino a tutto ottobre. Gli interventi durante la crescita sono minimi: sia per quel che riguarda la concimazione, data la capacità dei legumi di fissare a livello radicale l’azoto dell’aria, sia per quel che riguarda le più comuni avversità, stante l’ottima resistenza della varietà. Per il controllo delle infestanti si ricorre a pacciamatura e l’irrigazione è raccomandata solo in caso in mancanza di precipitazioni durante la fioritura e la formazione del baccello. Nella tradizione vicentina le cornette sono tipica produzione dell’estate inoltrata e del primo autunno, particolarmente apprezzate dal mercato e destinate per lo più alla preparazione di contorni ripassati in padella, ma non mancano nuove applicazioni, dalle frittate alle torte salate, dalle zuppe ai risotti, proposte dai ristoratori della zona.
Il progetto Carciofi di Marana s’inserisce nel contesto più ampio del Progetto Marana, che unisce le attività svolte dalle cooperative “Agrimea Società Cooperativa agricola Sociale” e “Mea Cooperativa Sociale” .
Il carciofo (Cynara cardunculus L.) è una pianta di origine mediterranea nota dall’antichità soprattutto per i pregi organolettici del capolino. In Italia la coltivazione del carciofo è tipica delle zone con clima temperato e inverni poco rigidi. In realtà esistono anche rare varietà di carciofo che si sono ambientate nel nord Italia riuscendo a superare in pieno campo anche i nostri inverni.Il nostro obiettivo è di ottenere una produzione di carciofi “fuori stagione”, sfruttando la combinazione dei fattori altitudine (coltivazione in montagna, al di sopra degli 800 metri s.l.m.) e latitudine (nord Italia) del nostro territorio, che sono in grado di riprodurre, nelle estati in quota, le caratteristiche climatiche presenti in inverno nelle pianure nel sud Italia.
La coltivazione avviene su terreni a Marana, una frazione di Crespadoro (VI) nell’Alta Valle del Chiampo, a un’altitudine di circa 810 metri s.l.m., e sono prevalentemente esposti a sud. Gli appezzamenti sono disposti su sistemi di terrazzamento molto ampi, che non presentano un’elevata pendenza media. I terreni in questione fino agli anni ’60 venivano coltivati avvicendando diverse colture cerealicole (mais cinquantino, orzo, grano saraceno, ...), orticole (patata, lenticchia, ...) e alcune particolari come lo zafferano.
Le attività agricole (e di allevamento) erano preminenti nella vita della popolazione dell’Alta Valle, scandivano i ritmi delle famiglie residenti e disegnavano l’assetto e la morfologia del paesaggio. Terrazze costruite con muri in pietra “a secco” per ricavare una pendenza utile alla lavorazione della terra, coltivata e curata con minuzia, opere di captazione per l’acqua irrigua e di drenaggio favorivano in aggiunta il regolare assetto idraulico prevenendo inoltre l’esposizione a rischi di tipo idrogeologico.
testo e fot:o http://www.carciofidimarana.it/
FONTE www.carciofidimarana.it/
Pochi lo sanno, ma i fagioli di Posina nel 1936 erano reputati tra i migliori d'Italia. È quanto ricaviamo dalla lettura del volumetto Il fagiuolo, edito nel XIV anno dell'era fascista nell'ambito della Biblioteca per l'Insegnamento Agrario Professionale. Al paragrafo "Razze più importanti" troviamo citato il «Fagiolo di Valsesia (sinonimi: fagiolo di Cipro, di Milano, Posena)» con il seguente commento: «È, col Borlotto di Vigevano, il fagiolo più quotato in commercio». È un'attestazione di gran conto, considerando che nello stesso libretto risulta che il Borlotto di Vigevano era noto anche come Lamon, dalla località bellunese che ancora oggi primeggia nel settore. E varrebbe la pena fare ulteriori indagini per chiarire il riferimento a Cipro, per esempio, evocativo di legami con gli antichi commerci di Venezia nel Mediterraneo Orientale. Come richiederebbe un'indagine linguistica la denominazione locale "scalda", che potrebbe avere un significato diretto, riferito al valore nutritivo dei legumi, ma anche radici nella lingua dei Cimbri, la popolazione di stirpe germanica che nel Medioevo si insediò tra le montagne dell'Alto Vicentino. Un piccolo giallo agroalimentare.
Tornando alla descrizione tipologica, il testo e la foto che corredano la scheda redatta quasi settant'anni fa trovano conferma nell'osservazione diretta del prodotto. Il fagiolo di Posina ha forma globosa, dimensioni medio-piccole (12x8 mm) e colore bianco-livido con qualche zebrinatura verdastra che converge verso l'ombelico bianco cerchiato di giallo-arancione, mentre nel prodotto secco il colore di fondo tende al marrone chiaro e le striature al dorato.
Da osservazioni sul campo si hanno ulteriori dati su questa varietà rampicante, che supera i due metri di altezza e continua a crescere su se stessa oltre l'infrascatura; il fiore è bianco scritto di viola; il baccello è dritto e lungo circa 15 cm, contiene 5-6 semi per una produttività media di 3 kg per pianta. Quanto all'utilizzo, la rinomanza del fagiolo di Posina viene tanto dal sapore, particolarmente dolce, quanto dalla consistenza, gradevolmente farinosa, vinta la minima resistenza di una buccia che pure regge bene alla cottura: i fagioli non si disfano nel minestrone e sono anche adatti all'insalata; passati al setaccio danno una base per la pasta e fagioli chiara e cremosa. Un ultimo dettaglio curioso viene dalle fonti storiche: l'apprezzamento che in passato si aveva anche per i cornetti carnosi e teneri prodotti da questa varietà.