Nella nostra provincia oggi c’è ancora chi prepara il pane con il forno a legna, c’è qualche altro panettiere artigiano che utilizza vecchie sementi di grano kamut e accanto a questi ci sono tanti fornai artigiani e anche piccoli industriali che soddisfano le esigenze dei vicentini, e non solo dei vicentini.
Anche la pasta, in particolare la pasta fresca è un vanto delle aziende artigiane, ed ecco allora le tagliatelle, le fettuccine, per arrivare ai più pregiati bigoli, emblema tipico della nostra terra, e poi agli gnocchi, per finire con i gargati della Val Leogra accompagnati con il consiéro. E non vorrei dimenticare quell’artista, più che artigiano, che nella Valle del Chiampo ha inventato i tortelli ripieni di trota e castagne.
Grazie agli agricoltori, opportunamente seguiti dall’Istituto di Genetica e Sperimentazione “N. Strampelli” dell’Amministrazione Provinciale di Vicenza stanno tornando in auge il mais Marano e il biancoperla, che trasformati in saporite polente troviamo nelle tavole e nei menu di tanti ristoranti, dove si accompagnano al celebrato piatto del baccalà alla vicentina, ma anche alle trippe, al coniglio, agli spiedi.
Abbiamo poi nel vicentino anche pasticceri d’eccellenza e dolci della tradizione vicentina: dai pandori ai crostoli, dalle frittelle al bussolà, dalla focaccia alla treccia d’oro passando forse per il più noto e innominabile dolce vicentino. Ed ancora, la torta Ortigara tanto celebre nel nostro altipiano, la cui ricetta è però giustamente custodita e segreta.
Se in passato arte bianca era sinonimo di cucina povera, a cominciare dallo squisito riso, ancora non compiutamente valorizzato, prodotto a Grumolo delle Abbadesse, non si possa più parlare, in futuro, di cucina povera, quanto piuttosto di cucina di qualità che ha raggiunto oggi a Vicenza notevoli e sicuri livelli di eccellenza.
Per saperne di più...
- FRUMENTO, RISO E MAIS NEL PIATTO- Storie e ricette dei cereali vicentini EDITORE TERRAFERMA
- IL MAIS DI MARANO NEL PIATTO -La polenta, innovazione e tradizione
(I volumi sono disponibili presso l'ufficio turistico di Piazza Matteotti a Vicenza)
In un momento in cui si parla con apprensione dei possibili effetti dell'impiego in agricoltura degli organismi geneticamente modificati è significativo ricordare come cent'anni fa Antonio Fioretti, benemerito agricoltore da Marano Vicentino, procedette a selezionare un tipo di mais che si adattasse al meglio alle terre ghiaiose e asciutte del Leogra. Punto di partenza erano due varietà già acclimatate: come impollinante, il Nostrano, un mais precoce molto diffuso, con pannocchia conica, corta e non molto colorita; come portaseme, il Pignoletto d'Oro, proveniente da Rettorgole di Caldogno, caratterizzato da chicchi vitrei e quasi rossi, dai quali si traeva una farina di qualità superiore. Il prodotto dell'incrocio venne seminato l'anno successivo nel podere Fioretti e così si fece per oltre vent'anni allo scopo di fissarne i caratteri e di accrescerne la fertilità e la produttività. La selezione veniva fatta poco prima della raccolta, in un appezzamento situato nel centro del podere, dove era minore la possibilità di impollinazioni indesiderate. Si sceglievano le piante più robuste, di altezza leggermente inferiore alla media e portanti almeno due pannocchie.
La varietà risultante, giusto compromesso tra rusticità e rendimento, come sappiamo, ebbe notevolissima fortuna in Italia e nel mondo. È il mais Marano che ancora oggi è custodito nella banca del germoplasma dell'Istituto di Genetica e Sperimentazione Agraria Strampelli di Lonigo. Per attenerci alla terminologia tecnica, la prima cosa da dire è che trattasi di una varietà a impollinazione libera e non, come ormai consuetudine, un ibrido. La scheda tipologica descrive una pianta di taglia media, alta tra 180 e 200 cm, con stelo esile ma di notevole resistenza al vento, con nodi ravvicinati e foglie numerose. Le pannocchie sono di norma due, ma non di rado fino a cinque, protette da brattee fini e molto aderenti; hanno misure modeste, forma allungata (14-18 cm) quasi cilindrica (circonferenza alla base 11-12 cm, all'apice 7-7,5). I chicchi sono tondeggianti e serrati, di un bel colore rosso aranciato, lucidi e a frattura vitrea; sono disposti in file spiralate, destrogire o sinistrogire, ma talvolta anche dritte; danno ottima e abbondante farina con una percentuale di proteine più alta della norma. Dal punto di vista agronomico il Marano si adatta particolarmente ai terreni sciolti, ciottolosi e ghiaiosi, poco profondi. È un mais di modeste esigenze, tanto da sopportare prolungati periodi di siccità, e di notevole generosità, reggendo investimenti da 4 a 6 piante per mq a seconda del suolo. Ulteriore vantaggio è la maturazione precoce, raffrontabile con quella di un ibrido classe Fao 300. Nel complesso è una varietà di resa molto apprezzabile, non tanto in quantità rispetto ai più recenti ibridi, sicuramente in qualità organolettiche, chimiche e molitorie della granella.
Quanto all'inquadramento normativo, la parola passa al Consorzio di Tutela Mais Marano, istituito tra l'altro per sostenere la procedura per il riconoscimento comunitario dell'Indicazione Geografica Protetta (IGP). Alla base della richiesta si pone un disciplinare di produzione che specifica i termini geografici e agronomici della coltivazione. Si parte dai comuni compresi nella zona tipica: innanzitutto Marano Vicentino e poi, da ovest a est, Schio, San Vito di Leguzzano, Malo, Torrebelvicino, Valli del Pasubio, Santorso, Piovene Rocchette, Monte di Malo, Zanè, Thiene, Zugliano, Sarcedo, Breganze, Mason, Molvena e Pianezze. Seguono varie specifiche tra cui la raccomandazione di seguire i dettami della cosiddetta "lotta integrata", che prevede il ricorso minimo a prodotti chimici di sintesi dalla fertilizzazione al diserbo. Quanto al prodotto finale, sono previsti due tipi: la farina di Mais Marano Vicentino e la farina integrale di Mais Marano Vicentino macinata a pietra; per entrambe è prevista la menzione aggiuntiva "proveniente da agricoltura biologica", qualora certificata a norma di legge. A tutela del consumatore il disciplinare prevede anche un periodo di commercializzazione limitato tra settembre e giugno, corrispondente alla migliore conservazione della farina, nonché la numerazione delle confezioni corrispondente alle quantità di prodotto denunciate ogni anno dagli aderenti al Consorzio.
Sito web del Consorzio di tutela del mais Marano: http://www.maismarano.it
Il manipolo di produttori maranesi capitanati da Giandomenico Cortiana – che hanno in paese un mulino del XIII secolo, cui affidano la macina dei preziosi grani rossi – ha una convinzione precisa: puntare sulla qualità paga. Vanno avanti su questa strada e non demordono. Non si fanno incantare dalle sirene della produzione intensiva. Sanno benissimo che il mercato del mais Marano è potenzialmente sterminato, sì, ma non è alla loro portata. Un conto è intensificare la produzione, obiettivo che perseguono con determinazione, un altro è gettarsi su un mercato agroalimentare incontrollabile. La sfida è improponibile. Non ci sono i numeri. E alla fine ci perderebbe solo la qualità. Cioè loro.
Ciononostante, il consorzio di produttori punta su un'espansione ragionata della coltivazione di mais. Un controsenso? No. Il mercato c'è, basta organizzarsi. E dovrebbe essere proprio la leva finanziaria a motivare nuovi investimenti: la semente del mais Usa costa molto meno, è vero, ma rende anche assai meno del mais Marano, che arriva a far incassare un milione per il raccolto di un campo.
Ma c'è anche un'altra direzione di sviluppo: l'agricoltura biologica. Già oggi un terzo dei produttori e un terzo dei terreni del consorzio sono dedicati alla coltivazione biologica del mais. Che, se è più pregiata comporta anche una diminuzione di circa il 30% del prodotto: da ogni campo si ricavano 10 quintali di mais Marano biologico (cioè 25 per ettaro) al posto dei consueti 15. Anche se la coltivazione biologica è assai più complicata e faticosa (il raccolto deve essere fatto a mano, sono vietate le mietitrebbie…) in teoria la domanda è immensa e finora non ha trovato risposte sul mercato. Spiegano al consorzio che non sono in vendita farine biologiche di mais per polenta. Quella di mais Marano potrebbe essere la prima.
Un tempo la coltura del riso non era esclusivo orgoglio di Grumolo. Altre risaie si trovavano nelle immediate vicinanze, da Bolzano Vicentino a Torri di Quartesolo, come tutt'intorno ai Colli Berici, nelle terre di bonifica che si susseguono grosso modo da Barbarano a Lonigo. La contrazione della coltura è piuttosto recente e si deve alla trasformazione dello scenario agrario sia per lo scadimento di qualità delle acque, sia per la rarefazione di persone competenti nell'opera di regimazione idraulica. Il riso è un prodotto pregiato ma impegnativo, oggi conveniente solo nelle località a migliore vocazione, come Grumolo, ma anche qui messo a rischio dalla concorrenza di produzioni esotiche, tanto che il terreno investito allo scopo si è ridotto a 130 ettari e i produttori a sette, solo tre dei quali con impianto di pilatura propria.
Vi si produce, secondo la tradizione veneta, soprattutto il Vialone Nano, un riso semifino, dai chicchi piuttosto piccoli e tondeggianti, molto ricchi di amilosio (23,8%), ben compatti a cottura e con una grande capacità di crescita, per questo ideale per i risotti. In anni recenti è cresciuta la produzione di riso Carnaroli, varietà superfina tra le preferite dalla grande cucina per l'insieme delle sue doti, dall'eleganza del chicco allungato all'elevata percentuale di amilosio (24%). Quanto al futuro, i segnali sono incoraggianti: l'amministrazione si è posta come priorità la salvaguardia del patrimonio ambientale e paesaggistico delle risaie; i produttori, costituiti in associazione, hanno adottato un disciplinare di produzione e in collaborazione con l'Istituto Strampelli di Lonigo e la Provincia di Vicenza hanno creato un punto vendita comune; la condotta Slow Food di Vicenza, sotto l'egida dell'azienda regionale Veneto Agricoltura, ha istituito un "presidio", primo passo per un rilancio della produzione fondato innanzitutto sulla tipicità ma anche sul turismo gastronomico.
La stagione del riso comincia con il 25 di aprile, data di riferimento per la semina, che viene effettuata, a seconda delle tecniche adottate, in asciutta o con il terreno allagato. Ai primi di maggio, l'appuntamento è con la "Passeggiata tra le Risaie", manifestazione che porta a scoprire una realtà stupefacente. I campi trasformati in specchi d'acqua sdoppiano il paesaggio e i voli dei tanti uccelli che trovano interesse nel nuovo ambiente: tra le piantine, piccoli trampolieri dal procedere nervoso; nell'aria, pavoncelle in allarme se qualche intruso si avvicina al nido; aironi cinerini dal maestoso incedere alato; talora qualche cicogna di passaggio, che fa sempre notizia.
A giugno le piante vanno in spiga e ad agosto imbiondiscono offrendo uno spettacolo di antica bellezza, impreziosito da un gracidare di rane che è la migliore garanzia di pratiche agricole rispettose dell'ambiente. A fine settembre viene il momento della trebbiatura e la terza domenica il paese scende in festa per la tradizionale "Festa del Riso". Attrazione gastronomica della manifestazione, il Risoto dea badessa, che abbina carni e verdure in tradizionale ricetta segreta ( http://www.festadelriso.it/) .
La coltura del riso venne introdotta nella pianura di Vicenza dai benedettini, cui va il merito d’aver regolato le acque che ne rendevano paludoso gran parte del territorio. Nel distretto di Lonigo aveva vocazione in tal senso Bagnolo, località d’esplicita ricchezza idrica, dove sorge villa Pisani, una delle opere più significative di Andrea Palladio, realizzata tenendo ben presente le esigenze della coltura risicola: la fronte, rivolta verso il fiume Guà, per l’imbarco del cereale alla volta di Venezia; il retro, affacciato alla grande corte, con le barchesse attrezzate per la lavorazione.
Al centro del progetto resta ovviamente la residenza, che anzi viene enfatizzata elevandola su un basamento come un tempio antico, mentre gli edifici rustici, fino ad allora ignorati dal punto di vista monumentale, vengono chiamati a farle adeguata corona. Il progetto, dunque, considera tanto la funzione abitativa quanto quella produttiva, estendendo all’architettura il concetto dell’utile e dilettevole vagheggiato dai pensatori del Rinascimento.
Villa Pisani è ancora oggi fedele alla sua originaria funzione agricola – ed anche alla sua antica denominazione di Corte Nogarola – con la particolarità che tutto il ciclo del riso – dalla semina al raccolto, quindi l’essiccamento e la pilatura – viene svolto con i mezzi e nelle strutture dell’azienda. La produzione riguarda due varietà: il Vialone Nano, riso semifino tipico del Veneto, a chicco medio, ideale per risotti mantecati e minestre dense come risi e bisi, e il Carnaroli, riso superfino a chicco lungo, destinato ai più attuali impieghi d’alta cucina.
Grumolo delle Abbadesse: 3.400 anime distribuite nel centro comunale e nelle due frazioni di Vancimuglio e Sarmego, poco discoste dalla strada che collega Vicenza a Padova; un paesaggio di campagne di antica bellezza, con specifica vocazione per la risaia, e una cospicua eredità in ville del Palladio, dello Scamozzi e d'altri.
Il toponimo fa riferimento al poggio, grumulus, sul quale nell'antichità sorgeva un castello; la specificazione riguarda invece le principali artefici della fortuna del luogo, le monache benedettine che l'ebbero in feudo pochi anni dopo il Mille. In quegli anni Vicenza è retta dal vescovo Liudigerio I, che gestisce gli interessi del Sacro Romano Impero attraverso gli ordini religiosi, con predilezione per i Benedettini se si tratta di mettere a coltura qualche plaga marginale del contado. Così, quando tocca alle selve paludose che si stendono oltre il Tesina, l'incarico va al monastero più vicino, quello femminile di San Pietro, che ancor oggi innalza il suo campanile entro le mura di Vicenza.
Nel giro di due secoli le terre di Grumolo cambiano aspetto: aperti canali di bonifica, sono resi produttivi ben 900 campi vicentini, vale a dire 350 ettari. Nel Cinquecento, 200 campi sono destinati alla coltura del riso, cereale ancora poco conosciuto, introdotto dagli Arabi in Sicilia nel IX secolo e da qui diffusosi nei luoghi della penisola dove, per combinazione pedoclimatica e abbondanza d'acqua, si riesce a surrogare l'ambiente delle terre d'origine estremorientali. Nel nostro Paese il distretto risicolo per antonomasia è la Lomellina, tra Piemonte e Lombardia, seguito dal Veneto, tra il Basso Veronese e il Delta del Po, e da realtà minori in Toscana, Marche e Sardegna.
Quella delle Badesse di Grumolo, dunque, è una scelta coraggiosa, ma in linea con le strategie di un ordine che mette in pratica la regola dell'ora et labora anche redimendo gli incolti con diligenti sistemazioni idrauliche. A Grumolo, l'opera principale è il canale della Moneghina, che attraversa il centro abitato con il duplice scopo di portare le acque del Tesina alle risaie e consentire il trasporto del raccolto su chiatte trainate da cavalli verso i magazzini della corte benedettina in paese. Poi le acque si frazionano in rogge e canalette a disegnare il paesaggio caratteristico della risaia.
A ciò si deve, in ultima analisi, l'unicità del luogo e del suo paesaggio che abbina le geometrie delle risaie alle architetture delle ville nel gioco di riflessi della tarda primavera, quando la campagna è allagata, e poi in una cornice lussureggiante, verde smeraldo, quando tutt'intorno, a estate avanzata, la natura è stanca e polverosa.