Si fa con quel che c’è, ovvero sempre poco. In campagna le materie prime non scarseggiavano ma la varietà sì. Nonna Matilde, pur di maniere borghesi, era abituata a non buttare nulla. E il pane finiva recuperato immancabilmente nella torta macafame: il prototipo del dolce misero, pane bagnato nel latte, con aggiunta di zucchero e se c’erano pezzi di fichi, noci, uvetta, un bicchierino di grappa. Prima che nelle stufe si cucinava sotto le ceneri del focolare, nel covercio. Così era per la versione evoluta del macafame, la cosiddetta putana, che mescola sul fuoco le due farine (gialla e bianca) nel latte e poi finisce di cuocere con cedri, uvette e guarnizioni di frutta secca. «Piuttosto che una torta, una parodia della torta» scrisse Luigi Meneghello a proposito di questi dolci, base della tradizione veneta (la pinza) e vicentina.
La putana deve il suo nome al fatto che accoglieva bene qualsiasi ingrediente pur di diventare apprezzabile, ma la leggenda la vuole battezzata così da un ristoratore vicentino che durante un improvviso black out la fece volare dal vassoio direttamente nel piatto del cliente che rispose con... l’esclamazione di meraviglia. Di certo la pasticceria berica nasce e cresce povera: ciambelloni, biscotti secchi (il pandolo di Schio, i pandoloni di Malo appena più grandi), i bigarani di Rossano, da intingere nella cioccolata calda o nel vino passito. E meglio ancora nel rosolio dei Carlotto di Valdagno, al profumo di rosa bulgara.
Di nulla, albume e zucchero, si nutre anche un capolavoro bassanese come la meringa, di cui il re incontrastato per anni è stato Osvaldo Scamoncin, detto Aldo, scomparso nel 2007: decano dei pasticceri, ha diffuso una ricetta arrivata dall’America latina e ha consacrato la lieve meringa nell’olimpo dei dolci.
Più recentemente il gruppo dei pasticceri di Assoartigiani, capitanato da Carlo Pozza, ha messo a punto un dolce vicentino che porti il nome della provincia in giro per il mondo, ironizzando sull’appellativo per il quale i vicentini sono da sempre conosciuti: magnagati. La Gata è dunque il nuovo dolce berico che si innesta sulla tradizione più pura: farina bianca e farina gialla di Marano, burro, zucchero, latte e miele berico, grappa vicentina, cacao e mandorle. Può durare pur priva di conservanti per cinque settimane e si decora con zucchero a velo e uno stampino a forma di impronte di gatto. Appena qualche mese fa la Gata ha partorito i Gatei, ovvero una serie di 21 tipi di sfogliatine, cantuccini, zaeti, parpagnacchi, lingue di gato e arancini che recuperano e rielaborano ricette beriche.
Infine una menzione d’onore per la ditta Loison di Costabissara, che ha elevato a dignità regale il panettone artigianale e lo ha portato nelle case dei vip. Dario Loison, terza generazione dopo il nonno Tranquillo, fornaio, e il papà Alessandro, pasticcere, dal 1969 ha fatto del dolce di Natale il marchio di fabbrica, rinnovandolo di anno in anno con vaniglia del Madagascar, cedro calabro di Diamante, mandarino tardivo di Ciaculli, nocciole delle Langhe, pistacchi di Bronte. Burro che sa di panna, lievito madre, uova di fattoria, latte intero. Giusto nei giorni in cui dalla fame si è passati alle diete.